giovedì 15 ottobre 2015

L'identità di padre

BennyPapà e il piccolo Leo
In ogni fase della nostra vita siamo stati qualcosa. Ci siamo definiti (o siamo stati definiti) in un certo modo. Siamo stati il lavoro che facevamo in quel momento, un nostro hobby, una caratteristica di noi. A memoria sono stato prima scolaro, poi liceale, attivista politico, cronista, universitario, stagista, scrittore, speaker radiofonico, opinionista tv, pr e un po' d'altro. Diciamo che generalmente la nostra professione ci ha sempre identificati, all'esterno e con noi stessi. Con orgoglio o meno.

Quando è nato Leo, intendo nel momento esatto, mi sono sentito perfettamente definito dall'essere suo padre, senza necessità di essere o sentirmi altro. Mi spiego: non mi importava essere l'altisonante coordinatore della radio ufficiale di una squadra di Serie A, né il responsabile della comunicazione di un grande parco sportivo, né altre cose che facevo all'epoca. In quel momento mi sentivo prima di ogni altra cosa il papà di Leo. Una "condizione" che mi riempiva d'orgoglio. "Ciao, sono Benny, sono il papà di Leo". Punto. Senza avvertire alcuna frustrazione nell'essere "solo" un padre e non un astrofisico o uno scrittore da best seller.

Non è un discorso puramente teorico. Quando è nato Leo ho lasciato alcuni lavori e alcune collaborazioni che avevo in essere. Ho tenuto solo un'attività da otto ore al giorno in modo da essere a casa il prima possibile. A breve lascerò anche questa e mi dedicherò ad altre attività che mi consentano di stare il più possibile a casa e lavorare da pc. Non so se questo danneggerà la mia carriera e la mia crescita professionale. La verità è che, giusto o sbagliato, me ne frega poco. Io voglio essere il miglior papà possibile per Leo, tutto il resto viene e verrà decisamente dopo.

Voglio esserci in ogni istante della mia vita di mio figlio. Finché lui vorrà. Gli garantirò un futuro adattando la mia vita lavorativa a lui. Questo perché odio i rimpianti, non mi perdono gli errori. Lavoravo dodici ore al giorno. Tra dieci anni sarei stato certamente più ricco di quanto non sarò. Ma avrei ripetuto frasi che sento spesso in giro: "che peccato non essermi goduto di più mio figlio". Io lo sto facendo e voglio farlo finché potrò. Sarà meglio avere un rimpianto lavorativo che un rimpianto da genitore. Mio figlio è il mio mondo, tutto.

P.s. Questa è la mia vita. Questa è la mia storia. Non voglio e non posso generalizzare. Non mi metto nei panni di chi sarebbe disposto a tutto pur di lavorare e che magari leggendo questo post si è indisposto. Racconto solo di me stesso. Senza moralismi e retorica.

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