mercoledì 23 settembre 2015

Dall'ospedale a casa, da coppia a famiglia

BennyPapà e Leo il 27 giugno
Le prime tre notti dopo il parto Irene non ha mai chiuso occhio. Allattamenti, certo, ma soprattutto coccole e voglia di non smettere mai di guardare Leo. Temevamo che, a causa della piccola emorragia avuta durante il parto, la tenessero in ospedale più dei canonici tre giorni previsti dopo il parto naturale. Invece, la mattina del 18 giugno, l'ostetrica ci comunica che dopo le visite saremmo potuti andare a casa.

Tornare a casa dopo il parto è un momento bellissimo e un rito in sé: la preparazione dei bagagli, l'allestimento dell'ovetto dopo lo studio e le prove effettuate in gravidanza, la disattivazione dell'air-bag del lato passeggero, il guidare come se si trasportassero uova senza guscio, l'aprire la porta e per la prima volta tornare a casa come una famiglia dopo esserne usciti, l'ultima, in due, di corsa e con una pancia enorme.

Quel 18 giugno, comunque, è tutto pronto. Leo va in ovetto e si lamenta un po'. Irene, dal colorito tra il giallo e il bianco, raccoglie le ultime cose e, aiutati da nonna Antonella, usciamo dall'ospedale. Saliamo in auto e partiamo. Anzi no. Prima perdo una decina di minuti con il manuale dell'auto in mano perché non riesco a disattivare l'air-bag del lato passeggero. Se state ridendo non è un bel gesto. Quindi, dopo imprecazioni e sudata caldo-fredda, si parte. 

Durante il viaggio Leo piange un po', così inizio a cantare canzoni completamente inventate. Provo anche con la radio. Così, dopo 10 minuti che sembrano svariate ore, arriviamo a casa.

È tutto nuovo in tre. Improvvisamente, anche a causa di passeggini e affini, la casa sembra più piccola di quel che (realmente) è. Io ho ancora quattro giorni di ferie e stiamo tutti e tre 24 ore su 24 insieme. Dormiamo quando dorme Leo e, mentre Leo dorme, mangiamo, sempre rigorosamente attaccati alla navicella. Sì, Irene, più che Benny, è terribilmente (o fantasticamente) simbiotica.

No, non è tutto poesia, non è tutto facile. Durante le prime notti dormiamo al massimo 3-4 ore. Siamo dilettanti, dobbiamo capire. Di là dorme mia madre, ma noi vogliamo e dobbiamo cavarcela da soli. E allora non capiamo: "ha fame, non ha fame, ha sonno, non ha sonno, ha le coliche ecc.". Ci innervosiamo, litighiamo. Poi, al sorgere del sole, dimentichiamo tutto. 

Oggi, che sono passati più di tre mesi, siamo felici di aver sbagliato, di aver litigato, di non aver capito. Bisogna provare e sbagliare. Bisogna conoscere il proprio figlio perché non esiste un manuale o dei consigli universali. Bisogna abituarsi a rigurgiti e a cacca e pipì fuori dal pannolino in piena notte, a resistere alla tentazione del "dai, dorme, lo cambieremo appena si sveglia" quando è evidente che sta navigando nella cacca. Così, ancora oggi, per me è bellissimo svegliarmi un paio di volte a notte, tutte le notti, prendere in braccio Leo, appoggiare la sua testa al mio petto, e andarlo a cambiare. Lui ride, mi parla e io lo coccolo. Poi, pulito, va dalla mamma che lo allatta. E io torno a dormire. Lei lo allatta, lo tiene su, e dopo il ruttino lo rimette nella culla. E poi torna a dormire.

Siamo una squadra. Non so se la più forte o la più scarsa, ma siamo la nostra squadra. E ogni giorno sbagliamo e cerchiamo di imparare. Ecco, forse ad oggi è questa la definizione che posso dare dell'essere genitori. Si cerca di essere i migliori, non sempre si riesce, ma sempre ci si prova.

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